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L'omelia in forma di lettera di fra Marco Moroni, Custode generale del Sacro Convento di Assisi, nella solenne celebrazione eucaristica di San Giuseppe nella Basilica di Santa Maria degli Angeli.

"Caro Giuseppe, vorrei parlare un po’ con te, ma so già da ora che non ci sarà dialogo. Necessariamente il mio sarà un monologo, un parlarti ad alta voce, senza sentire la tua voce. E non tanto perché non sei fisicamente presente, ma perché nei vangeli non ti ho mai sentito parlare. All’inizio dei vangeli parlano tutti: gli angeli, Elisabetta, Erode, i magi, i pastori. E c’è addirittura chi lascia emergere un canto: Maria, Simeone e Anna, lo stesso Zaccaria, dopo un temporaneo, necessitato silenzio. Tu invece non dici una parola. Eri davvero così taciturno

Vorrei chiederti, caro Giuseppe, che cosa si muoveva nel tuo cuore?
Come vorrei cogliere il tuo interrogativo di fronte a quel messaggio dall’Alto che ti preannunciava il tuo avere un figlio senza esserne padre.

Quante immagini si sono rincorse quella notte nel tuo cuore? Come hai potuto riprendere sonno? È bastato dirti di non temere perché tu fossi in pace? Era così rassicurante la voce dell’angelo? O hai forse pensato che era semplicemente un sogno, o hai cercato spiegazioni, hai posto domande? Quanto ci è voluto, Giuseppe, per accettare la realtà, per sciogliere quel nodo alla gola e parlarne con Maria? Quanto tempo è passato perché ti rendessi conto che non eri semplicemente una marionetta senza volto, ma che nel dramma della storia ti era stato offerto un ruolo di primo piano?

E quali parole vi siete scambiati con Maria, quali progetti, quali aspettative su quel figlio non tuo ma che è per tutti, mentre cercavate un posto un po’ confortevole perché dovevano compiersi per lei i giorni del parto?
Immagino poi la tua meraviglia per tutta quella gente che andava e veniva, quei pastori, quegli stranieri tanto particolari che parlavano di una stella e offrivano doni.
Avete anche riscattato il bambino al tempio. E anche lì lo stupore non dev’essere stato da poco, alle parole di quei vegliardi che parlavano di rovina, di risurrezione, di spade, di luce e di gloria...

Poi siete dovuti partire per l’Egitto, il luogo in cui il tuo popolo aveva tanto sofferto. Forse lì hai ripercorso, ancora una volta, tutta quella storia; ti sono passati davanti agli occhi e nel cuore tutti quegli eventi che tuo padre ti aveva raccontato. E forse proprio lì, in quell’occasione, ne avevi a tua volta parlato al piccolo che cominciava a capire. Era più chiaro e facile dare spiegazioni lì, alle domande di Gesù durante la cena pasquale. Avevi raccontato la sofferenza del tuo popolo, emblema della sofferenza di ogni tempo e di molti popoli a causa della prepotenza di pochi. Avevi raccontato il cammino nel deserto e il patto stretto con Dio.

Mi piacerebbe ascoltare da te anche lo sconcerto, forse addirittura quel senso di ferimento e di abbandono che ha attraversato il tuo cuore quando, di ritorno dalla festa in Gerusalemme, dopo lunghe e angosciate ricerche, una volta ritrovato Gesù, lui, senza mezzi termini, ti aveva detto che aveva altro di cui occuparsi, anzi che la sua occupazione erano le cose di suo Padre, quello dei cieli. Gli evangelisti poi non raccontano altro di te. È quasi un nuovo esilio. Ti dilegui dalle scene, senza scalpore. Neppure più una breve comparsa. La tradizione azzarda una tua morte prematura. Gli artisti le danno una mano raffigurandoti vecchio, forse per dire la tua saggezza, certo per mettere al sicuro Maria da ogni tentazione.

Caro Giuseppe, non hai aperto bocca, non un lamento, non l’espressione di un parere, una richiesta di chiarimento. Hai risposto solo con l’obbedienza: ogni volta che hai ricevuto la visita dell’angelo ti sei alzato, hai preso con te il Bambino e sua Madre. E ancora oggi sei silenzioso di fronte a questa storia che è la nostra storia e che ti ha visto protagonista fondamentale ed insostituibile.
Anche oggi non parli.
Non parli eppure insegni e lo fai con tutta la discrezione che ti è propria.
Non ti metti in cattedra, ma ci offri con tutta l’eloquenza della vita, delle scelte, il tuo donarti, il tuo obbedire, il tuo amare, il tuo educare.

In quegli anni nascosti di Nazaret sei stato tu ad insegnare a Gesù la fatica e la gioia di lavorare con le proprie mani e di metterci dentro il cuore. Gli hai insegnato i canti della sinagoga, i gesti della preghiera, gli hai mostrato, tu padre tenero, accogliente, coraggioso e creativo, il volto del Padre amato al quale anche tu ti rivolgevi con fiducia. Forse proprio i tuoi silenzi, insieme alla quiete meditativa di Maria, hanno insegnato a Gesù l’attitudine orante, quell’attitudine che rende capaci di annunciare il Regno, di operare il bene, di percorrere la propria strada fino alla croce.

Grazie Giuseppe, perché proprio tu hai insegnato le parole alla Parola, a quella Parola che ha cambiato la storia. Insegna anche a noi oggi ad amare il Bambino e sua Madre, insegnaci la tua paternità dolce e premurosa, a non venir meno all’obbedienza anche quando non ne capiamo il senso, ad usare creatività e ad osare audacia nel ricercare vie inedite di carità e di misericordia".